Incredibile come una delle più importanti confessioni politiche sullo stato di crisi in cui versa l’economia italiana sia praticamente ignorata.

Più di un anno fa, con il Decreto Legge n. 4 del 18/01/2024 il governo ha emanato “Disposizioni urgenti in materia di amministrazione straordinaria delle imprese di carattere strategico”, ammettendo la necessità di intervenire su importanti crisi di settore, attuali e future, ad alto impatto occupazionale.

La doccia fredda è arrivata con la convocazione sindacale al Ministero del Lavoro per l’attivazione di una procedura ai sensi dell’art. 4 ter del suddetto decreto, che prevede il confronto con le organizzazioni sindacali affinché le società possano usufruire di agevolazioni nel caso in cui decidano di realizzare operazioni di “aggregazione delle imprese”.

Nel caso specifico, la convocazione riguarda la società Telecontact del gruppo TIM, quindi migliaia di dipendenti del settore delle telecomunicazioni.

Di seguito il comma 1 dell'art. 4 ter:

1. In via sperimentale per gli anni 2024 e 2025, nell'ambito del piano di politiche attive previsto dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, le nuove imprese costituite attraverso processi di aggregazione derivanti da una o più operazioni societarie rappresentate da fusioni, cessioni, conferimenti, acquisizioni di aziende o rami di esse, da cui emerge un organico complessivamente pari o superiore a 1.000 lavoratori, possono avviare il confronto sindacale per stipulare in sede governativa, con la presenza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e del Ministero delle imprese e del made in Italy, un accordo con le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o con le loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero con la rappresentanza sindacale unitaria, nel quale e' contenuto un progetto industriale e di politica attiva, che illustri le azioni volte a superare le difficoltà del settore in cui l'impresa opera e le azioni per la formazione o la riqualificazione dei lavoratori per garantire loro un adeguamento delle competenze professionali al nuovo contesto lavorativo, nonché per gestire processi di transizione occupazionale. La nuova impresa a seguito della costituzione può sottoscrivere l'accordo di cui al presente comma anche prima dell'operazione societaria di aggregazione a condizione che nel medesimo accordo sia contenuto l'impegno ad effettuare tale operazione entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla sottoscrizione. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e il Ministro delle imprese e del made in Italy, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono disciplinati meccanismi che assicurino l'eventuale revoca in caso di mancata effettuazione dell'operazione.

Non ci vuole mica una raffinata mente politica per comprendere che si discute di ingenti piani di riorganizzazione d'imprese per far fronte a crisi – presunte o reali, superabili o non superabili – con il coinvolgimento di migliaia di lavoratori di diversa estrazione e qualifica professionale.

Ecco la confessione.

A cosa serve una nuova procedura sindacale?

Come molti potranno notare, sorge immediatamente un interrogativo: perché attivare una nuova procedura di confronto sindacale quando già in materia di trasferimento di azienda e di ramo d’azienda questa è obbligatoria ai sensi dell’art. 47 l. n. 428/1990?

Per chi si avventura per la prima volta in questo argomento, ogni volta che un’azienda decide di cedere un ramo di attività, oppure se l’intera azienda viene ceduta a un’altra società, l’art 47 impone alle parti – cedente e cessionaria – di attivare una procedura obbligatoria di informazione sindacale, cui può seguire una fase di consultazione per un eventuale accordo sindacale, principalmente per regolamentare il possibile cambio del contratto collettivo (cosiddetta armonizzazione), e talvolta contestualmente vengono previste garanzie occupazionali.

Detto ciò, dalla lettura del primo comma sopra riportato, da un lato non si cita la procedura sindacale già vigente ex art. 47, dall’altro se ne introduce una sostanzialmente parallela. Perché?

Eh già, perché. Proviamo a capirlo.

Anzitutto, la prima differenza di rilievo tra le due procedure sindacali è che nel caso dell’art. 4 ter l’obiettivo è proprio il raggiungimento di un accordo, mentre l’art. 47 pone un obbligo di informazione lasciando ad aziende e sindacati di decidere se fare o meno un accordo.

L’accordo previsto dalle nuove regole è dichiaratamente finalizzato a intervenire sul personale per “superare le difficoltà del settore in cui opera l’impresa”, dunque non un accordo per tutelare i lavoratori dalle riorganizzazioni d’impresa ma per tutelare il “settore in crisi” attraverso i “processi di transizione occupazionale”.

Siccome l’espressione “processi di transizione” è oramai di moda, la si usa per tutto – dal green alle guerre per intenderci –, perché non usarla anche per abbellire una (a quanto pare) colossale crisi del lavoro.

Che significa esattamente “transizione occupazionale”?

Posto che il fine ultimo sembra proprio quello di “ripulire” un settore produttivo attraverso interventi massivi sul personale, lo strumento individuato a tal fine è quello della “aggregazione” di diverse realtà aziendali con un enorme bacino di lavoratori (almeno 1.000) da canalizzare nelle cosiddette newco, ossia società di nuova costituzione create apposta per accorpare ciò di cui altri evidentemente vogliono disfarsi.

Ho già spiegato nell’indagine contenuta su “La lotta di classe nel XXI secolo” e in vari altri studi la pericolosità delle newco per la stabilità occupazionale dei dipendenti coinvolti, cosa che peraltro è oramai sancita in importanti sentenze della magistratura del lavoro su casi seguiti personalmente. Qui mi limito a ricordare che ogni società avendo una sua distinta personalità giuridica, ancorché controllata da un’altra società magari molto più solida e importante, è la sola a rappresentare la figura del datore di lavoro con tutte le relative responsabilità nei confronti dei lavoratori.

Nell’attesa di ulteriori chiarimenti, possibili solo attraverso il manifestarsi di casi concreti, sicuramente la “transizione occupazionale” deve intendersi come trasferimento di lavoratori da una realtà preesistente a una nuova società preposta alla concentrazione di lavoratori di settori in crisi, potendosi anche verificare situazioni in cui in un unico bacino finiscano lavoratori con attività simili se non identiche, rendendo così lo scenario degli esuberi ancor più concreto.

Cosa più o meno chiarita al comma 8 sulla gestione della “ricollocazione” del personale:

8. Al fine di agevolare la transizione occupazionale, in via sperimentale le nuove imprese di cui al comma 1 possono avviare iniziative di politica attiva a gestione diretta aziendale finalizzata a ricollocare i lavoratori, con il loro consenso, anche in altri settori economici con un contratto di lavoro almeno corrispondente a quello in essere. Ferma restando la gestione diretta aziendale della ricollocazione, i fabbisogni occupazionali del territorio possono essere recuperati anche avvalendosi dei servizi forniti dalle agenzie per il lavoro, dai centri per l'impiego o da ogni altro operatore economico del territorio, comprese le associazioni di categoria. Al fine di svolgere le attività previste dal presente comma, le agenzie per il lavoro possono essere aggregate ai sensi del comma 1, anche attraverso reti d'impresa, consorzi o altre forme di partecipazione, anche di natura societaria.

Ricollocare i lavoratori in esubero, ecco a cosa serve il nuovo modello di accordo: l’arma a doppio taglio del consenso del lavoratore.

Chiarito che i “processi di aggregazione delle imprese” appaiono come “processi di aggregazione del personale di cui disfarsi”, evidente quindi che la newco in cui transitano i lavoratori possa rappresentare soltanto un passaggio intermedio per un successivo smaltimento di personale da ricollocare frazionandolo in altre realtà societarie. Nella fase dello spezzettamento il potere di trattativa di sindacati e lavoratori non può che uscirne indebolito: una cosa è trattare per 1.000 o 3.000 lavoratori con le garanzie del 2112 c.c. (che non presuppongono il consenso del lavoratore), altra cosa è proporre per esempio a 5, 10, 20 lavoratori di un determinato territorio di passare a un’altra società ancora prestando tra l’altro il proprio consenso, quindi senza le garanzie del mantenimento dei diritti previste nei casi di trasferimento di ramo d’azienda dalla newco verso appunto la società di effettiva destinazione, poiché non viene mantenuto il contratto di lavoro preesistente ma ne viene stipulato uno nuovo. In tal caso, il “consenso del lavoratore” diviene un bell’affare per giocare al ribasso. Più o meno quanto sperimentato con il caso Alitalia.

Certo, appare rassicurante l’idea di inserire in decreto il vincolo alla sottoscrizione di un nuovo contratto di lavoro “almeno corrispondente a quello preesistente”, ma è troppo vago e passibile di aggiramenti.

Altro scenario, quello per cui una volta transitati nella newco, questa dopo un certo periodo di tempo viene sottoposta una procedura concorsuale, come l’amministrazione straordinaria, cosa che consentirebbe di usufruire delle deroghe ai diritti occupazionali previsti dall’art. 2112 c.c. Questo sempre considerando il passaggio nella newco come un percorso intermedio.

Criticità sulla garanzia occupazionale di 4 anni: il fine politico del decreto

La lettera e) del secondo comma dell’art. 4 ter prevede una garanzia occupazionale di 4 anni:

e) l'impegno del datore di lavoro a tutelare il perimetro occupazionale esistente alla data di decorrenza delle operazioni straordinarie di cui al comma 1 per almeno quarantotto mesi, nel rispetto delle condizioni di cui al comma 7.

Sul punto, va detto anzitutto che l’effettività dei 4 anni dipende dalla capacità dei sindacati di ottenere una formulazione della garanzia nei singoli accordi il più blindata possibile, perché le aziende propongono spesso clausole di salvaguardia di fatto facilmente aggirabili.

In questo senso, l’espressione “tutelare il perimetro occupazionale” significa tutto e niente, la casistica delle opzioni di tutela è tutta da sperimentare, partendo dalle esperienze sindacali già vissute.

Si può presumere che l’intento del governo sia da un lato quello evitare che una conclamata crisi del lavoro appaia come tale, utilizzando lo strumento mediatico della “transizione” per ridurne la percezione, sperando in un riassorbimento alternativo del personale. Dall’altro, la previsione di una garanzia di 4 anni è stata magari formulata nella speranza di evitare di inimicarsi una buona fetta dell’elettorato.

Stiamo però rimandano l’irrimandabile, ed è così da decenni.

Prima si fa l’accordo e poi si definiscono le operazioni da cui dipende l’accordo!

Vale la pena di evidenziare un'altra questione, e cioè la possibilità delle imprese che usano lo strumento previsto dal decreto di raggiungere l’accordo sindacale anche prima di realizzare effettivamente l’operazione di aggregazione, purché questa vena poi fatta entro i 60 giorni successivi:

Comma 1 … La nuova impresa a seguito della costituzione può sottoscrivere l'accordo di cui al presente comma anche prima dell'operazione societaria di aggregazione a condizione che nel medesimo accordo sia contenuto l'impegno ad effettuare tale operazione entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla sottoscrizione.

L’esperienza insegna che l’effettiva sopravvivenza dei posti di lavoro, nonché la solidità della garanzia occupazionale, dipendono dal sistema di affari che viene posto in essere una volta effettuate le operazioni di cui al comma 1: fusioni, cessioni, conferimenti, acquisizioni di aziende o rami di esse, da cui derivano poi uno o più contratti di servizi su cui continuano a essere impiegati, almeno nella fase iniziale, i lavoratori ceduti.

Questo significa dare alle imprese la possibilità di accordarsi senza avere definito e svelato le carte.

Tra l’altro rendendo di fatto arbitrario il contenuto dell’accordo relativamente ai punti, già di per sé vaghi, a), b), c) ed e) del comma 2 dell’art. 4 ter, ossia la descrizione del piano industriale e i lavoratori da coinvolgere. Per esempio, il piano industriale dipende dagli assets e dai valori monetari effettivamente trasferiti, che però possono essere definiti ex post, così come fermo restando il numero dei lavoratori da trasferire, le imprese possono alterarne la composizione sempre dopo avere raggiunto l’accordo.

Presto un altro articolo di approfondimento sulle parti del decreto relative alle gestione delle difficoltà degli stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale e al relativo indotto.

Per ulteriori informazioni scrivete a info@lidiaundiemi.it

 

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