Esiste un bacino enorme di lavoratori cd. “in appalto” che giorno dopo giorno vive con l’angoscia della perdita del posto di lavoro (o del ridimensionamento dei diritti, specialmente quelli di natura economica), dettata dal fatto che il proprio futuro lavorativo dipende dal mantenimento delle commesse, per lo più concesse da grandi realtà imprenditoriali, molte delle quali giocano spesso al ribasso del costo del lavoro imponendo un calo del corrispettivo dell’appalto. Se i lavoratori non accettano le “nuove” condizioni, si paventa il rischio di una sospensione dei lavori, del trasferimento delle attività in altre società. Per questo motivo, i lavoratori sono quasi sempre costretti ad accettare le richieste di parte imprenditoriale, talora coincidenti con significative riduzioni degli stipendi.
E’ interessante notare come le pressioni al taglio del lavoro provengono di fatto dal committente, ossia da colui che detiene il potere economico, potendo decidere a chi affidare l’appalto. Ne deriva che le società appaltatrici – che assumono e pagano il personale addetto alle lavorazioni acquisite – devono, a loro volta, affrontare un eventuale riduzione del prezzo della commessa con il taglio dei salari. Questo accade per lo più nei casi in cui l’appaltatore gestisce poche commesse (o addirittura una soltanto, società cd. monocommessa).
I contratti di lavoro stipulati con datori di lavoro “precari” non possono essere considerati “stabili”, nonostante siano formalmente a tempo indeterminato. A tal proposito, si è ben coscienti che dopo l’ultima riforma del mercato del lavoro – targata “Renzi” (e prima ancora “Fornero”) – la riduzione ai minimi termini dell’ambito di operatività dell’art. 18 ha sostanzialmente precarizzato il “lavoro indeterminato”. Tuttavia non bisogna commettere l’errore di assimilare i fenomeni, perché vi è una tanto sottile quanto sostanziale differenza che non può essere ignorata, se si intende ragionare in termini di strategie di difesa dei lavoratori.
E’ vero, infatti, che il Jobs Act ha in un certo senso legittimato i licenziamenti “facili” aumentando i margini di arbitrarietà del datore di lavoro, ma ciò non esclude che il ricorso al lavoro in outsourcing possa comunque rappresentare un business conveniente per i committenti, specialmente per la grande impresa, a maggior ragione se multinazionale. Anzitutto perché sotto il profilo normativo, il ricorso ai licenziamenti di massa (collettivi) “interni” comporta degli oneri, dei costi e dei limiti non indifferenti. Si consideri inoltre che la forza collettiva che i lavoratori possono esprimere in una importante realtà imprenditoriale (per esempio una holding di un gruppo) è significativamente superiore al potere sindacale esercitabile in una delle tante società appaltatrici, non fosse altro che per il numero di dipendenti assunti. Ragionamento simile nell’ipotesi in cui l’obiettivo non è l’espulsione del personale ma un intervento sul costo del lavoro, molto più semplice da realizzare all’esterno cambiando le condizioni economiche dell’appalto. Un’altra questione da non trascurare è l’immagine, un aspetto aziendale di fondamentale importanza strategica per competere sui mercati. Basti solo pensare agli ingenti investimenti pubblicitari di noti marchi. Minacciare di licenziare centinaia o migliaia di lavoratori per ottenere uno “sconto” sul loro lavoro ha un costo di immagine non indifferente. Ricorrendo ai lavoratori degli altri (esternalizzati) questi problemi vengono in gran parte aggirati. Saranno altre società a dover dichiarare crisi occupazionali.
Non solo. L’outsourcing consente al committente di sganciare il più possibile i salari dalla produttività e dal profitto. Se l’imprenditore veste i panni del datore di lavoro la verifica dell’effettiva sussistenza delle contrazioni economiche che giustificano i tagli è più agevole per i lavoratori e per i sindacati. Se l’imprenditore assume la veste di committente, esso non è tenuto a giustificare la pretesa di ridurre il corrispettivo dell’appalto (da cui consegue la crisi occupazionale dell’appaltatore), ben potendo imporla a prescindere da una crisi di settore.
Per i lavoratori tutto questo ha un risvolto ben preciso: se si instaura un rapporto di lavoro diretto con la grande azienda è possibile godere di una maggiore stabilità lavorativa, nel senso che è più difficile essere licenziati o veder ridurre il proprio stipendio senza una effettiva crisi aziendale, e certamente non bisogna periodicamente temere la scadenza di una commessa.
Per tale ragione, aumenta il numero di lavoratori che decide di contrastare tale pratica ricorrendo in giudizio contro l’asserito appalto illecito di manodopera, che consente ai lavoratori di potere essere considerati dipendenti diretti del committente qualora riescano a dimostrare che quello in cui sono impiegati non è un appalto genuino ma interposizione illecita, appunto di manodopera.
(Per altre informazioni e per i riferimenti normativi, si rimanda a Lavoratori, appalti, trasferimenti e societarizzazioni: cosa c’è da sapere, e più in generale ad altri scritti che trattano in modo dettagliato il tema).
Una indagine approfondita di tali fenomeni è contenuta nel mio libro “Il ricatto dei mercati“.